Come più volte ci aveva ricordato Giovanni Raboni, uno dei punti centrali della ricerca poetica del Novecento è il grande progetto inclusivo, e dunque l’esigenza, più ancora che il desiderio, di poter assorbire nel tessuto della poesia il cosiddetto “impoetico”, i materiali linguistici e dell’esperienza, spesso, o tradizionalmente, considerati estranei alla poesia. Francesco Osti sembra essere la voce delle nuove generazioni che con più naturale disposizione riesca a interpretare, a consolidare la validità di questo progetto sempre attuale. Lo vediamo benissimo in questi suoi Itinerari, che per molte ragioni possono anche considerarsi indicazioni di percorsi per altri, vista l’esemplare asciuttezza concreta delle sue brevi prose; vista la sorprendente ricchezza di dati, circostanze, situazioni che riesce a produrre sulla pagina.
Il primo dato saliente è quello della scelta esclusiva della prosa. Pochi autori, nella nostra poesia contemporanea, hanno voluto o saputo praticarla in modo costante e persuasivo. In questo senso, il nome più importante è quello di Giampiero Neri, a cui, in qualche modo, in parte anche Osti forse si rifà. Ma la sua è un’opera del tutto autonoma, che frequenta altri luoghi dell’esperienza; che si cimenta con ambienti e figure tanto reali ed emblematiche quanto in genere ignorate dallo sguardo della poesia. Figure e personaggi che appartengono a una dimensione quotidiana del vivere e che dunque la poesia non può, non deve ignorare. Alcuni personaggi si imprimono nella mente, specie per la loro solitaria e stralunata presenza, come “la sudamericana nel suo trucco da Venere pensierosa”, il cuoco con “il braccio tatuato Carmen webcam”, “la ragazza dai tratti silvestri, con gli occhi ombreggiati di un azzurro marino”, “il paraplegico, l’anchilosato che raschia il muro; il tizio che ha due occhi di vetro e una badante al braccio”. Ma agisce anche una forte spinta a sottrarsi dalla autentica, ma claustrofobica realtà di itinerari che passano per “ciò che resta dell’officina”. Il soggetto narrante si trova immerso nel grande magazzino di un mondo non ancora del tutto post-industriale: è dunque tuttora legato ai processi di “metallurgia” o di “raffineria”, ma vorrebbe anche proiettarsi in una geografia ulteriore e forse ancora in parte ignota, come suggerisce il passaggio in “la ragazza esce dai suoi occhi neri e mi sussurra Uzbekistan”.
Osti è un poeta che ci persuade perché sa cogliere, oltre le superficie delle cose, il tratto umano nella sua umile verità, nella sua indifesa evidenza. Non manca, in lui, “un tentativo di staccarsi dalla materialità invadente”, da cui si sente, nel bene e nel male, posseduto.
Francesco Osti nasce a Morbegno (Sondrio) nel 1976, qui vive e lavora. Suoi testi sono apparsi su alcune riviste ed antologie fra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) e La riqualificazione urbana (CoenTanugi Editore, 2006). Nel 2005 è uscito presso l’editore Lietocolle il suo primo libro intitolato Errore di sintassi. Nel luglio 2007 è stato fra i finalisti del premio “Cetona Verde Poesia”. Una sua raccolta, fino ad allora inedita, è uscita nel 2007 su «Almanacco dello Specchio» edito da Mondadori.
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